Stato dell’arte sull’adozione del paradigma 4.0, impatti attesi su occupazione e lavoro, sfide sul piano delle competenze necessarie a guidare la trasformazione verso l’Impresa 4.0. Sono i temi affrontati nell’ultimo incontro organizzato dal RISE – Research & Innovation for Smart Enterprise, laboratorio di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Industriale (DIMI) dell’Università degli Studi di Brescia, dal quale è emersa, anche a fronte del dibattito tra i partecipanti, un’Italia che ha voglia di “mettersi in gioco”
«Stiamo arrivando ormai all’idea che Industria 4.0 risulti un termine abusato con un alone grigio di incertezza su quale è necessario fare un po’ di chiarezza e mettere dei punti fermi». È con questo spirito e con una piccola provocazione che Franco Docchio, Prorettore Università degli Studi di Brescia, ha aperto i lavori dell’ultimo incontro organizzato lo scorso dicembre dal RISE – Research & Innovation for Smart Enterprise, laboratorio di ricerca del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Industriale (DIMI) dell’Università degli Studi di Brescia. «Il concetto e il paradigma stesso del 4.0 non sono dati dalle tecnologie ma dal modo di lavorare delle persone nelle imprese», rimarca Docchio, «e qui l’Università ha un ruolo fondamentale dal punto di vista della formazione: come Università dobbiamo preparare adeguatamente i ragazzi che tra qualche anno entreranno in azienda quando il “modello” 4.0 sarà ormai maturo».
Accanto al fondamentale ruolo educativo dell’Università, sui temi dell’Industry 4.0 sta trovando una collocazione sempre più strategica per il tessuto imprenditoriale e aziendale del territorio il laboratorio RISE, guidato da Marco Perona, Professore Ordinario di Logistica Industriale presso l’Università degli Studi di Brescia, che guida il RISE in qualità di Direttore Scientifico. «Il RISE può essere visto come un ponte tra l’Università e le imprese – spiega Perona -; il nostro compito è aiutare le aziende a diventare più competitive attraverso l’innovazione dei processi, dei prodotti e dei servizi, nonché dei modelli di business, il tutto partendo dalla sviluppo di nuove idee che possono generarsi attraverso le competenze e le risorse della ricerca universitaria».
Paradigma 4.0: uno stato dell’arte tra “luci e ombre”, cresce la conoscenza ma c’è ancora molto da fare sul piano pratico
Uno dei ruoli più critici del RISE riguarda l’indagine e l’analisi degli scenari evolutivi che il laboratorio mette in pratica attraverso diverse attività di ricerca, una delle quali totalmente incentrata sul tema dell’Impresa 4.0 con l’obiettivo di monitorare ed analizzare la trasformazione digitale dell’industria manifatturiera. L’incontro tenutosi lo scorso dicembre è di fatto divenuto occasione per i membri del RISE di presentare i risultati della seconda edizione della ricerca condotta dal laboratorio alla quale hanno partecipato e contribuito oltre 100 aziende, grazie a cui è stato possibile:
– mappare lo stato di diffusione del fenomeno 4.0 in Italia;
– identificare quali siano i legami e le relazioni di dipendenza con le rivoluzioni precedenti (per esempio la terza legata all’informatizzazione dei processi);
– rilevare quali siano le figure aziendali principalmente coinvolte dalla trasformazione digitale;
– identificare i benefici abilitati e gli ostacoli incontrati;
– sondare i primi pareri e risultati delle misure del Piano Calenda;
A presentare le principali evidenze del rapporto (scaricabile direttamente dal sito del RISE) è Andrea Bacchetti, Ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Industriale dell’Università degli Studi di Brescia e Direttore dell’Osservatorio Smart Agrifood degli Osservatori Digitali della School of Management del Politecnico di Milano.
«Analizzando un campione di 105 imprese manifatturiere (per il 56% PMI) abbiamo tracciato una sorta di matrice di avvicinamento al 4.0 tenendo conto sia del grado di conoscenza circa i paradigmi tecnologici e le soluzioni sia delle reali implementazioni», è la premessa di Bacchetti. «Ne emerge un quadro di “luci e ombre” con un 47% di ritardatari ma tutto sommato buone percentuali di imprese che potremmo definire “in cammino” che hanno una conoscenza discreta, magari da approfondire, e stanno sperimentando a diversi livelli l’utilizzo di tecnologie in ottica 4.0». Ciò su cui Bacchetti si sofferma è il percorso evolutivo intrapreso dalle aziende più virtuose per delinearne alcune importanti caratteristiche “replicabili”: «le dimensioni aziendali hanno un peso significativo (le aziende più mature nel percorso verso l’impresa 4.0 sono di grandi dimensioni) ma ciò che mi preme evidenziare è il percorso intrapreso che può essere d’esempio per le PMI: le grandi aziende hanno compiuto da tempo importanti passi verso l’informatizzazione dei processi e questo risulta essere un pre-requisito importante nel percorso verso l’Industria 4.0».
La scarsa conoscenza, in linea generale, delle tecnologie abilitanti la trasformazione 4.0 (soprattutto in aziende medie e piccole) è sicuramente uno degli aspetti più critici, nonostante il livello medio di consapevolezza e comprensione tecnologica sia aumentato del 10% rispetto all’edizione precedente dell’analisi condotta dal RISE. Ad oggi, risultano ancora piuttosto alte le percentuali di aziende che non hanno alcun tipo di conoscenza, o il cui livello di “padronanza” tecnologica è piuttosto basso, in tecnologie quali Cloud Manufacturing, Realtà Aumentata o Virtuale, Collaborative Robotics. Va un po’ meglio sul fronte dei Big Data, degli Advanced Analytics, dell’Additive Manufacturing e dell’Industrial IoT ma anche in questo caso la strada è parecchio in salita.
Ad incoraggiare è invece il quadro positivo che emerge quando si analizzano i benefici ottenuti da chi ha già compiuto qualche passo in ottica Industry 4.0 o sta utilizzando alcune delle tecnologie citate. «Il vantaggio primario riguarda la qualità dei prodotti (lo sviluppo di soluzioni con caratteristiche e funzionalità maggiori o più innovative rispetto al passato è il beneficio raggiunto dal 38% delle aziende), cui seguono l’efficienza di costo (riduzioni dei costi di processo), la riduzione dei tempi di attività (che significa più rapido go to market nonché maggiore reattività nei confronti del mercato e dei clienti)», commenta Bacchetti. «Interessante anche l’aspetto della flessibilità: molte aziende hanno dichiarato di aver acquisito una maggiore capacità di gestire le modifiche e le personalizzazioni richieste dai clienti con tempi e costi contenuti».
La grande sfida delle competenze: si passerà da un periodo di “contrazione” del lavoro ad una nuova crescita occupazionale alimentata dalla ricerca di nuove figure
Quello delle competenze è un tema la cui criticità trova conferma nell’indagine condotta dal RISE dato che la “difficoltà di acquisizione/integrazione delle competenze” è citata come una delle sfide più importanti da risolvere nei percorsi di trasformazione vero l’impresa 4.0.
Su questi aspetti, Massimo Zanardi, ricercatore del laboratorio RISE, offre una rapida panoramica del “futuro che ci attende” ossia dei possibili impatti su occupazione e lavoro che si verificheranno nel breve e nel medio-lungo periodo a seguito di questo inevitabile e grande momento di trasformazione. «L’impatto dell’automazione sui posti di lavoro è un problema che si è già posto diverse volte in passato, ma stavolta l’aspetto inedito è che sono moltissimi i tipi di lavoro potenzialmente interessati», è la premessa di Zanardi. «Storicamente le rivoluzioni industriali hanno sempre generato fenomeni di migrazione della forza lavoro tra settori macro-economici ed è quindi lecito attendersi che questo avvenga anche a seguito della trasformazione in ottica Impresa 4.0 a seguito della digitalizzazione delle industrie e dei modelli di business. In termini generali, le tecnologie 4.0 nel breve periodo avranno un impatto sul fronte dell’automazione delle attività mentre nel medio-lungo periodo gli impatti saranno più significativi sull’aumento della produttività».
Che cosa questo significhi da un punto di vista specifico delle competenze lo spiega Federico Adrodegari, ricercatore del laboratorio RISE, il quale, analizzando le competenze necessarie per compiere questa “rivoluzione” fa una doverosa premessa: «assisteremo a brevissimo ad una forte discontinuità nel fabbisogno di risorse e competenze da parte delle imprese; le tecnologie digitali andranno a sostituire molti lavori e automatizzare diverse attività ma, allo stesso tempo, genereranno nuove opportunità legate a lavori che oggi non esistono, molto probabilmente modificando nel lungo periodo la natura del lavoro senza tuttavia intaccare l’occupazione complessiva».
Per affrontare questo grande cambiamento, ricorda Adrodegari in chiusura, «serviranno nuovo “ruoli chiave” sia per quanto riguarda le attività di natura più operativa sia per quanto riguarda i ruoli manageriali. Tra i C-level, per esempio, saranno sempre più richiesti CTO – Chief Technology Officer, CDCO – Chief Digital Communication Officer, CIO nell’accezione di Chief Innovation Officer ed esperti di sicurezza nel ruolo di Chief Cybersecurity Officer. Tra i ruoli più operativi ma decisamente strategici per compiere questi percorsi trasformativi stanno già emergendo i Data Scientist, i Service Architect, gli Agile Management Expert e i Success Manager, tutti ruoli che devono saper coniugare forti competenze tecniche con soft skill legate a comunicazione, leadership, condivisione, team working…».
Sfide non banali che dovranno essere affrontate a più livelli e, naturalmente, con approcci diversi; sul fronte delle competenze, le vie per colmare eventuali gap si dovranno intraprendere su due direttrici primarie:
1) assunzione di nuovi ruoli da ricercare nel nuovo mercato del lavoro che andrà delineandosi;
2) riqualificazione delle competenze interne attraverso consistenti programmi di formazione.
A fare da asse orizzontale, il ruolo delle Università che devono rinnovare i propri percorsi educativi per preparare adeguatamente i lavoratori di domani.